Emozioni e frammenti di vita rappresentati da attori detenuti a Rebibbia
Immaginate una vita libera anche se complicata, immaginate che, in ogni caso, pensate di vivere la normalità anche se normale non è. Poi un reato, frutto di una vita sbagliata, reato più o meno grave e da un momento all’altro tutto cambia. Ciò che sembrava giusto, o possibile, o necessario, la negazione di una realtà per una parte di vita trascorsa fuori dalla legge ti viene sbattuta in faccia nel modo più duro, il fermo, l'arresto, il processo e la condanna definitiva. Per un momento provate ad immaginate di avere perso così la vostra libertà, di essere detenuti in carcere per scontare una pena legata ad un reato commesso. Per alcuni sono anni, per altri è ergastolo. La prima cosa che vivete è l’assenza di libertà. Unici colpevoli, condannati dopo il terzo grado di giudizio. Ma quella pena chi la sconta? Solo il detenuto? O quella condanna colpisce altri. I vostri affetti, la famiglia, i genitori, moglie, compagni figli. Solo a quel punto, solo quando si è detenuti si comincia a comprendere che quell’io, io detenuto, io condannato, io privato della libertà si trasforma in un noi. Credo ancora nelle favole è lo spettacolo messo in scena al Carcere di Rebibbia da 10 detenuti e le loro famiglie a conclusione di mesi di un percorso terapeutico sull’affettività, in particolare sulla paternità reclusa e sulle dinamiche familiari connesse al reato e alla condanna di un congiunto. Il percorso terapeutico prima e la piece teatrale poi diventano una sorta di "confessionario collettivo". Emozioni realmente vissute, frammenti di vita, raccontate in un copione totalmente autobiografico. Una prima assoluta per il sistema carcerario italiano. Per la prima volta i detenuti e le loro famiglie hanno raccontato come si sconta la pena, dentro il carcere come reclusi e fuori dal carcere come genitori, moglie e figli dei carcerati. Lo hanno fatto salendo sul palcoscenico. Ognuno di loro ripercorre la propria storia, la storia del proprio reato compiendo una vera e propria rivisitazione critica delle scelte di vita, rimodulando le responsabilità, non solo verso sé stessi, ma anche verso le famiglie, costrette loro malgrado a scontare una condanna. Vivere senza di lui, crescere i figli senza lui, sopportare i pregiudizi della gente. Fragilità e solidarietà familiare, storie di uomini-detenuti che vogliono andare alla ricerca di una identità diversa oltre l’etichetta deviante. Autobiografie di uomini che rivendicano una dignità umana che, di fronte ad un pubblico esterno, si mettono in gioco, si raccontano, si interrogano, si analizzano, gettando le basi per un ritorno positivo alla vita sociale. Un lavoro supportato dal direttore della casa di reclusione Rebibbia Maria Donata Iannantuono e curato dalle psicologhe e psicoterapeute Irene Cantarella e Sandra Vitola che hanno unito al percorso terapeutico il laboratorio di teatroterapia. Un progetto che non finisce con lo spettacolo teatrale ma che prosegue con la realizzazione di un docufilm diretto da Amedeo Staiano che partirà sì dallo spettacolo, dal backstage dello stesso, dalle interviste ai protagonisti detenuti ma racconterà, in presa diretta, la quotidianità dei familiari.
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